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Storia e Storie

Dalla Costiera ad Amatrice: diario di un volontario Millenium sui luoghi del sisma

Inserito da (ilvescovado), lunedì 29 agosto 2016 16:56:45

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Valentino Fiorillo di Maiori e Salvatore Di Lieto di Ravello sono stati tra i primi volontari dell'Associazione di Pubblica Assistenza "Millenium" di Amalfi a partire alla volta di Amatrice il giorno successivo il sisma che ha distrutto diversi paesi e causato circa 300 morti. Dopo cinque giorni di attività di soccorso, Fiorillo ci regala la sua testimonianza.

di Valentino Fiorillo - Brutto risveglio quello di mercoledì scorso. Come tutte le mattine, guardo le ultime notizie in tv mentre faccio colazione. Le immagini che mi si aprono davanti sono di morte e devastazione: terremoto nell'Italia Centrale.

Intanto che ascolto i dettagli, accade quello che viene fuori ad ogni evento analogo, come se si schiacciasse un pulsante, quel pulsante che abbiamo noi volontari di protezione civile: "muoviti"

Chiami immediatamente in associazione, ti accerti che dalla sala operativa sia partita l'emergenza e ti rendi reperibile per l'immediata partenza. "Codice bianco" mi dice Miriam, la nostra coordinatrice, ma si prospetta in evoluzione.

Dopo qualche ora il bianco diventa verde. Ecco, ci siamo, l'escalation è partita.

Tiri fuori la borsa, tra le raccomandazioni di papà e la rassegnazione di mamma, quella borsa sempre pronta il cui contenuto ormai codificato negli anni, viene inserito in automatico: sacco a pelo, torcia, divisa da lavoro e qualche ricambio.

Del mio meraviglioso gruppo immediatamente danno la propria disponibilità altri 5 o 6 ragazzi, tutti alla prima esperienza ma con tanta forza e voglia di fare.

Intanto sei li, a guardare il telefono stando attento che abbia sempre campo, ad ascoltare le ultime notizie, a seguire gli eventi, a scalpitare e a smadonnare perché sto cavolo di telefono non squilla, perché intanto c'è gente che ha bisogno e tu sei li come un cretino a girarti i pollici. E intanto aspetti perché sai che squillerà, perché gli sfollati aumentano e ci sarà bisogno di ricoverarli, dargli da mangiare, confortarli.

Ecco, squillo, Miriam, codice rosso, immediata partenza ma solo per due persone, richiesta di conferma disponibilità. Chiama il mio responsabile "parti tu subito, serve gente esperta, scegliti il compagno"; "son tutti eccezionali, sorteggia" rispondo io. La sorte tocca a Salvatore, lavoratore instancabile e grande cuore.

Il tempo di recuperare attrezzature e mezzo e si parte, si raccolgono per strada due ragazzi di Corbara e due di Baronissi all'imbocco dell'autostrada.

E' buio, guidi con gli occhi incollati sulla strada ma con la mente che ripete le lezioni imparate in 25 anni di emergenze. Immagini scenari, ripassi nozioni, schemi, passaggi.

Arriviamo che è notte fonda nell'area che dovrà diventare un campo di accoglienza per 250 sfollati. Registriamo uomini e mezzo e ci mettiamo immediatamente al lavoro. Ci sono già una quarantina di volontari che cercano di tirar su la prima tenda. Evidentemente alla prima esperienza non hanno cognizione ma si mettono subito a disposizione, ascoltano le tue disposizioni e, in pochi minuti, il primo modulo viene tirato su.

Il lavoro prosegue per tutta la giornata, incessante, sfiancante ma con tanta determinazione. Anche questa è una lotta contro il tempo, stasera dobbiamo dare ricovero a della povera gente.

Si tirano su circa 35 tende alloggio, la tensostruttura mensa, la cucina da campo, i bagni e le docce, le torri fari e tutta la logistica necessaria, impianti elettrici e idraulici. A mezzanotte siamo ancora a picchettare.

Intanto cominciano ad arrivare alla spicciolata gli sfollati. Balza all'occhio immediatamente la grande dignità della gente amatriciana, non un gesto scomposto, nessuna scena di isteria, enorme compostezza seppure nel grande dolore. Gli vengono assegnate le tende che abbiamo appena finito di montare e offerto quello che, probabilmente, è il loro primo pasto caldo delle ultime 24 ore.

Scende la notte su Amatrice, una notte fredda e umida. In questa parte d'Italia, in questi giorni, le temperature passano dai 30 gradi del mezzogiorno ai 6 della notte. Ma fortunatamente non c'è quella pioggia che avrebbe reso tutto maledettamente più difficile.

Dormiamo poche ore, svegliati all'alba da una delle tremende scosse che ancora scuotono questa terra. Avevo quasi dimenticato l'effetto che fa a distanza di 7 anni dall'Aquila.

C'è ancora tanto lavoro da fare ma senza la frenesia del primo giorno. Così si ha il tempo di guardarsi intorno, osservare il paradosso di case intatte circondate dalle macerie degli stabili circostanti, vedere l'elicottero che fa la spola trasportando le salme che continuano ad arrivare nella palestra vicina.

Ascolti le storie di questa gente, storie di familiari, amici, conoscenti persi tra le macerie. Capisci ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, di quanto siamo piccoli su questa terra e come ci sia qualcuno più in alto che comanda e dispone di noi e della nostra esistenza in qualsiasi momento. Gli sguardi degli sfollati sono sempre gli stessi, quelli che hai incrociato in tante altre circostanze: sguardi increduli e stralunati di chi ancora deve realizzare pienamente cosa sia successo, disperati ma composti di chi sa che dovrà rimboccarsi le maniche e ripartire da zero. E tu sei li ad ascoltarli, a cercare di portare una parola di conforto, a sforzarti di non piangere con loro perché ti hanno insegnato che l'empatia deve essere controllata se non vuoi andare al manicomio. Ma tutto diventa maledettamente più difficile quando cerchi di far sorridere la bambina che, dalle braccia degli zii, ti chiede di riportarla a casa sua, quella casa che ha inghiottito la mamma e il papà. Qui lo sforzo diventa titanico, mandar giù il groppo alla gola è uno sforzo immane ma devi farlo, ricacciare indietro le lacrime che cominciano ad inondarti sembra impossibile ma devi sforzarti.

Intanto il campo è montato, i servizi sono attivati e, da questo moneto, occorrerà solo gestire.

Sabato mattina arriva il "contingente 1" (noi eravamo lo zero), che avrà il compito di gestire il campo che abbiamo allestito fino al sabato successivo. Possiamo tornare a casa, stanchi, stremati ma soddisfatti. Imbocchiamo la strada del ritorno in silenzio, ognuno chiuso nei propri pensieri, qualcuno a lasciar scorrere quelle lacrime trattenute.

A rompere il silenzio, come al solito, il vulcano Salvatore: "guagliù, ma pecchè nun ce fermamm a magnà?". Allora scoppia la risata e, intorno al bicchiere di vino, si programma il ritorno nelle terre d'Amatrice perché la valigia del volontario è sempre pronta.

 

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