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Lettere alla redazione

Parole di terra e dignità

"Lucciole e libertà", la poesia civile di Klaus di Amalfi sul precariato giovanile

Un testo intenso che mette in parallelo la fragilità delle lucciole con quella dei lavoratori senza tutele. Un inno alla libertà, all’autodeterminazione e al ritorno consapevole alla terra.

Inserito da (Admin), giovedì 3 luglio 2025 15:06:15

Una poesia che affonda le radici nella coscienza e sboccia tra le cime dell’Irpinia, dove il silenzio e le lucciole diventano metafora di un’intera generazione. Con "Lucciole e libertà", Claudio Rispoli (in arte Klaus di Amalfi) firma una riflessione poetica e civile che racconta, con parole salate e amalfitane, la condizione di chi vive nel limbo del lavoro precario. Un testo che accende una luce breve, ma significativa su dignità, sfruttamento, e il coraggio di scegliere la libertà.

"Lucciole e libertà"
di Claudio Rispoli (in arte Klaus di Amalfi)

Questa vuole essere una parola amalfitana, salata e di origini saracene.
Una lancia spezzata in favore dei giovani, spesso sfruttati e maltrattati.
Il racconto mette in luce l’analogia tra la fragilità luminosa e libera delle lucciole e il lavoro precario.

Le lucciole sono creature fragili, intermittenti, libere.
Appaiono nella notte senza chiedere permesso,
non si possono addomesticare,
né programmare.

Nel loro bagliore breve c’è qualcosa di sacro.

Una vita minima, ma luminosa,
che non è sottomessa
a un interruttore.

Così dovrebbe essere anche il lavoro.
Umile, onesto,
libero.
Sicuramente non umiliato.
Invece oggi,
il lavoro precario assomiglia alle lucciole per la fragilità.

Brilla per poco,
poi scompare.

Chi lavora così non ha tutele,
non ha voce,
non ha nemmeno il tempo di sognare.

E i sindacati,
che una volta erano fuoco,
ora sono panni stesi ai balconi dei padroni.

Meglio allora tornare alla terra,
coltivare con le mani la libertà,
invece di consumarsi in un sistema che chiama sfruttamento
con il nome elegante di "flessibilità".

Questa è una storia che parla della luce breve delle lucciole,
e della dignità lunga del vivere stando in piedi, con la "schiena dritta".

 

"Lucciole e libertà"

È il 1° agosto.
Non c’è luna, ma le lucciole sì.
Sono in Irpinia, su un crinale che guarda verso l’Ofanto.
Non c’è altro che silenzio, cicale e quei lampi intermittenti,
piccoli segnali di soccorso lanciati da creature
più precarie degli operai interinali.

Mi sono seduto su una pietra calda di sole vecchio.
Accanto a me c’è una ragazza che ha lavorato tutto il giorno,
in un call center.
Contratto a ore, pagata a risposta.
Ha la voce dolce, ma spenta.
Porta con sé una bottiglia d’acqua e un pensiero.

«Dicono che siamo giovani e flessibili.
Io mi sento solo sfruttata».

Ci guardiamo senza dirlo.

L’unica stabilità, qui, ce l’hanno le stelle.
Gli uomini invece no.

Chi comanda, chi compra e chi assume,
li vuole leggeri, intercambiabili,
usa e getta.

Il lavoro è diventato un favore.
Non un diritto, ma un’elemosina contrattualizzata.
E i sindacati, quelli che dovrebbero battere i pugni,
ora si inginocchiano, stendono tappeti
davanti ai padroni che parlano in inglese
e pagano in nero.

Le lucciole continuano a brillare,
brevi e intermittenti.
Proprio come i contratti a termine.

Allora glielo dico, piano, alla ragazza.

«Meglio un pezzo di terra,
quattro galline,
due conigli
e una capra da latte.
Meglio piantare cipolle che far finta di essere impiegati».

Mi guarda.
Sorride.

«E se piove?», chiede.

«Si bagna la terra.
Ma almeno il raccolto è tuo».

E in quel momento,
mentre una lucciola le si posa sul ginocchio,
capisco che la felicità non è il contrario della fatica.

È il contrario dell’obbedienza.

È potersi alzare la mattina
e sapere che nessuno ti tiene al guinzaglio
col filo del bisogno.

Il futuro è questo.

O schiena piegata in libertà,
o occhi bassi in una gabbia.

Io scelgo la vanga.
Lei accarezza la capra,
e ride.

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