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Tu sei qui: SezioniAttualitàAntonio Scurati su CorSera: «Restiamo lucidi nel nostro inverno più difficile»
Scritto da (redazione), venerdì 20 novembre 2020 11:11:26
Ultimo aggiornamento domenica 22 novembre 2020 08:29:54
Riprendiamo la riflessione dello scrittore Antonio Scurati, cittadino onorario di Ravello, pubblicata sul Corriere della Sera di oggi, venerdì 20 novembre.
«Ci attende un secondo inverno di resistenza. Affrontiamolo con fermezza, serietà, senza malanimo. Proprio ora che i vaccini ci offrono una ragionevole speranza, non è lecito ingannare la gente con il luccichio fasullo delle misere gioie da shopping natalizio. Sarà un Natale severo, dedicato a ricordare i morti e a custodire i vivi. Deve esserlo» avverte Scurati.
di Antonio Scurati
Comincia a far freddo a Milano. Un’interminabile, estenuante, angosciosa estate di San Martino cede, infine, il passo all’inverno. L’inverno del nostro scontento. Sì, perché se quello trascorso rimarrà nella storia come l’inverno del dramma, quello che ci attende rischia di restarvi come l’inverno della disperazione. La notte tra il sette e l’otto di marzo del 2020 la ricorderemo come il momento nella nostra vita collettiva in cui scoprimmo finalmente di essere mortali.
Scoprimmo allora, seduti ai tavolini di un ultimo happy hour, che cos’è l’età, che cosa ci dice e ci fa dire: «Siamo qui». Raggiunti, al secondo cocktail, sugli schermi dei nostri cellulari dalla notizia che la Lombardia sarebbe stata di lì a poche ore isolata dal mondo, percepimmo per la prima volta, nel mezzo di esistenze votate alla ricerca di una moderata ma piacevole felicità, la nostra finitudine di esseri mortali, i nostri limiti invalicabili, la nostra comune, congenita destinazione ultima. Scoprimmo in una spanna di vermouth mescolato al bitter — prendendo a prestito senza conoscerle le parole del poeta — le nostre vite "troppo giovani per sentirsi vecchie e troppo vecchie per sentirsi giovani".
Chiedemmo il conto. Lo pagammo d’impulso, smarriti, sulla colonna sonora di risatine isteriche. Poi, con il passo svelto e vigile di chi si metta in salvo, rientrammo nelle nostre case, grandi o piccole, belle o brutte, dalle quali in ogni caso non saremmo più usciti per i mesi a venire. Ci rinchiudemmo ciascuno per sé, mai così soli, eppure tutti insieme, mai tanto sgomenti prima di allora eppure risoluti, senza incertezze, senza polemiche, nessun dissidio, nessun livore. La prima grande tragedia collettiva della nostra esistenza ci colse certamente impreparati, immaturi, ma ci trovò anche determinati, concentrati, disciplinati, composti come lo è chi debba ridurre la superficie del proprio corpo esposta a una minaccia mortale. Ci facemmo animo — mentre i bollettini quotidiani contavano i contagi, i ricoveri, i decessi — cantammo perfino.
Le previsioni, a saperle ascoltare, ci dicono da mesi che il tempo di quest’anno sciagurato non cambia: farà brutto ancora. Per il weekend si prevede maltempo, freddo, neve, burrasche di vento e gelate anche in pianura. Al momento in cui scrivo, sulla grande pianura in cui sorge Milano è calata la nebbia a banchi. Difficile illudersi che, a dispetto di tutti gli affannosi annunci sull’appiattirsi della curva epidemica, la stagione fredda non aumenterà la vulnerabilità umana alla malattia, all’aggressione degli agenti patogeni, allo sfacelo dei corpi. Ancora più grave, però, è che sulla grande pianura fertile e operosa, oltre alla nebbia, sia calata la discordia, l’incertezza, la rabbia. Questa seconda ondata ci ha colti non meno impreparati e non meno immaturi della prima ma più stanchi, avviliti, litigiosi, meschini. Stiamo perdendo in fretta, troppo in fretta, dinanzi all’interesse personale, il gusto, appena riscoperto, dei problemi generali.
Numerosi, purtroppo, sarebbero, a volerli elencare, i segni di questo sfaldamento psichico, sociale e morale nella città dei quasi mille contagi al giorno e nella regione dei più di duecento decessi quotidiani: il miserabile tentativo dei governanti locali di lucrare consensi fingendo di opporsi alle decisioni governative; i tantissimi sintomi di una strisciante ma severa psicopatologia della vita quotidiana (non solo non si canta più dai balconi ma non ci si telefona più, non ci si parla più, nemmeno tra amici e parenti); la totale irreperibilità dei vaccini anti-influenzali nella regione che per decenni ha vantato il suo sistema sanitario (il mio medico mi ha invitato, tramite sms, a sperare che a fine novembre le farmacie ricevano i vaccini ma il farmacista ha subito esibito sconsolato un registro di prenotazioni spesso quanto un elenco telefonico).
I cahiers de doléances, però, si chiudono qui. Ciò che non si deve fare è proprio sprofondare nella palude morale dell’irresponsabilità contagiosa, nella nebbia cognitiva del risentimento astioso. Dobbiamo mantenerci vigili, lucidi, tragici come nel primo inverno di pandemia. E, allora, mentre accompagniamo a scuola a piedi i nostri bambini, dedichiamo uno sguardo ammirato e solidale a quei tanti baristi che ai cosiddetti «ristori» hanno preferito un lavoro coraggiosamente reinventato. Guardali lì, intirizziti dai primi freddi, in piedi sulle soglie dei loro bar eleganti di Milano, che servono caffè ai passanti come dalla porta sulla strada di un basso napoletano. Guardali nella loro dignitosa, caparbia laboriosità, allineare sotto le cupole di vetro le brioche vegane con la stessa cura con cui i loro padri e nonni coltivarono patate negli orti di guerra. E, poi, dopo aver girato inutilmente la città in cerca di un vaccino antiinfluenzale, mentre scorti all’ospedale militare di Baggio la tua compagna incinta di una figlia concepita sui picchi della prima ondata, destinata a venire al mondo sui picchi della seconda, guarda bene i colori mimetici della tenda da campo sotto la quale sarà finalmente vaccinata, osserva la premurosa efficienza di questi ufficiali medici, di questi soldati soccorrevoli come crocerossine. Guarda questi ottuagenari compunti che si trascinano a piedi in cerca di salvezza da tutta la città verso questa periferia estrema, affiancando il loro passo incerto a quello, non meno incerto ma sicuramente più speranzoso, di giovani donne gravide.
Non distogliamo lo sguardo da questi baristi industriosi, da questi nostri vecchi angosciati, dalle nostre spose coraggiose perché questa è la Milano, l’Italia che dobbiamo avere a cuore e in mente quando si deciderà se prolungare la necessaria linea di rigore adottata dal Governo o se abbandonarsi alla smania scomposta di precoci e controproducenti aperture. Ci attende un secondo inverno di resistenza. Affrontiamolo con fermezza, serietà, senza malanimo. Proprio ora che i vaccini ci offrono una ragionevole speranza, non è lecito ingannare la gente con il luccichio fasullo delle misere gioie da shopping natalizio. Sarà un Natale severo, dedicato a ricordare i morti e a custodire i vivi. Deve esserlo.
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