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Scritto da Antonio Schiavo (redazionelda), venerdì 10 settembre 2021 07:27:49
Ultimo aggiornamento venerdì 10 settembre 2021 07:29:47
di Antonio Schiavo
Quando si parla a Ravello del cortile di via SS. Trinità numero 15 non si indica solo un luogo fisico, un angolo tra case abbarbicate, quasi abbracciate l'una sull'altra.
Si parla di una comunità simbiotica dove il singolo si faceva, quotidianamente, parte di un gruppo che condivideva gioie, dolori, ansie, pettegolezzi, feste, lutti.
Vita, insomma!
Con due donne , due nonne forti, forgiate dagli stenti e dalle guerre, dalla povertà e dalla fame che sovrintendevano allo scorrere delle ore e dei giorni di quello che, con un po' di enfasi malinconica, potremmo chiamare luogo dell'anima.
Nel quale sei nato, sei stato svezzato a pane fresco e pomodoro, dove ti hanno insegnato che l'esistenza è degna di essere chiamata tale se gli attimi condivisi prevalgono su quelli dove vince l'egoismo, se il "noi" riesce ad averla vinta sull'"io ", se le piccole cose anche le più semplici come una partita di carte sulle scale di nonna Margherita o il Rosario a Ferragosto di fronte alla porta di nonna Filomena (nonne di tutti noi a prescindere dall'anagrafe) costituiscono un modo, anzi il modo per stare insieme e quasi di fare famiglia.
Forse è per questo che, se normalmente al cospetto della morte improvvisa (ma non solo) di un conoscente o di un amico rimani sconcertato e addolorato, quando invece ti avvisano che a lasciarci è stato qualcuno con cui, pur nella differenza di età nemmeno tanto grande, hai avuto in comune tanti momenti della tua fanciullezza che ora si affastellano nella mente, in quell'istante ti senti avvolgere e quasi soffocare da uno smarrimento senza fine.
Cerchi gli aggettivi che possano descriverlo e motivarlo prima e soprattutto a te stesso. E non ne trovi: sono tutti troppo blandi, limitati, incapaci e inadatti a comprendere come possa, in un baleno, volar via con chi se ne va anche un pezzo di te, dei giorni che si replicavano apparentemente sempre uguali ma pieni di luce chiara anche quando calavano le ombre dell'inverno più triste perché c'era sempre un focolare, una stufa in mattoni, un braciere attorno ai quali il tepore non riscaldava solo le mani arrossate dal gelo ma anche lo spirito di grandi e piccoli.
Giulia che non si risveglia, Giulia che esce di casa per un intervento che dicono di routine curando che i suoi capelli biondi siano a posto come sempre, che magari ha appena finito di dare l'ennesima, spasmodica spolverata al mobile d'ingresso e un'altra lucidata al pavimento già simile ad uno specchio, Giulia che non torna più ci lascia attoniti, increduli, muti.
Anche lo scrivere al PC diventa un macigno, ogni parola rimanda ad un ricordo che frena la scorrevolezza del discorso sempre se in questi casi ci possano essere parole giuste o discorsi che non paiano di circostanza, artificiosi, retorici.
Cosa rimane allora?
Un briciolo di Fede (che pure sembra vacillare) a dare conforto alla famiglia e una speranza che Nonna Filomena e Nonna Margherita si sono ritagliate, insieme a tanti papà e tante mamme che le hanno seguite, un posticino da qualche parte, nell'aldilà dove troneggi, scesa la prima rampa di scale, l'effige della Madonna di Pompei collocata chissà quanto tempo fa proprio lì, in via SS. Trinità numero quindici.
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