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Attualità

Sir Jeffrey Tate, il direttore d'orchestra rapito dallo spirito di Ravello

Portava in sé lo spirito dei grandi viaggiatori inglesi che in epoche passate avevano subìto il fascino della storia e della cultura profonda di queste terre

Inserito da (redazionelda), domenica 4 giugno 2017 08:18:16

di Fulvio Milone*

Sir Jeffrey Tate era era un artista irripetibile. Sul podio, quando dirigeva le più grandi orchestre del mondo, l'ispirazione, la passione e la volontà di cui era dotato volavano ad altezze vertiginose, proiettate in un universo in cui sembrava non esserci spazio per il dolore inferto dalla malattia che lo affliggeva e la penuria d'aria che i suoi deboli polmoni potevano accogliere.

Tutto il male tornava dopo il concerto, moltiplicato dallo sforzo fisico imposto dal movimento, dai gesti compiuti sul podio. Ma qui, a Ravello, le sofferenze parevano concedere una tregua al Maestro. Ed è proprio il rapporto di Tate con Ravello che vorrei ricordare, lasciando le interpretazioni e la critica della sua arte a chi è sicuramente più esperto di me.

Lo conobbi 12 anni fa, quando assunse la direzione musicale del Teatro San Carlo di Napoli. Gli fui presentato da mia madre, buona amica oltre che incondizionata ammiratrice del Maestro. Quando decisi di disintossicarmi dal vizio del giornalismo che mi aveva afflitto per trentacinque anni e che mi aveva condotto a Roma, optai per la pensione e mi trasferii a Ravello. Jeffrey Tate fu una delle poche, pochissime persone che non mostrarono quel misto di sorpresa e riprovazione riservato di solito a chi, come si dice, fa "una scelta troppo drastica", e "lascia l'impegno civile e la vita sociale nella grande città nonostante abbia ancora tanto da dare, per seppellirsi in un paese".

Credo capisse perfettamente il motivo della mia scelta di vivere a Ravello, di cui amava ogni pietra, ogni scorcio di paesaggio spalancato sul mare, le balze coperte di verde selvaggio che da Scala precipitano sulla costa, i cambiamenti repentini della luce che sembrano modificare la forma e le dimensioni degli stessi luoghi, l'architettura dei monumenti che evocano mescolanze suggestive di stili e culture. Ravello faceva di Sir Jeffrey Tate - il coltissimo e raffinato Maestro che amava Mozart e Wagner, certo, senza però accantonare la sua passione per compositori del Novecento "difficili" per la loro complessità come Britten - un uomo allegro e amante della vita più semplice, ma soprattutto un intellettuale ammaliato e incuriosito dai luoghi e dalla gente.

Portava in sé lo spirito dei grandi viaggiatori inglesi che in epoche passate avevano subìto il fascino della storia e della cultura profonda di queste terre. Il suo arrivo era sempre preceduto da un fitto giro di telefonate fra gli "amici napoletani", che a gruppi si organizzavano e venivano a salutarlo. Spesso trascorrevamo mattinate intere seduti al tavolino di un bar in piazza. Ma il primo impegno, la scadenza a cui per nessuna ragione al mondo avrebbe rinunciato, erano il pranzo e la cena da Cumpa' Cosimo. Era irresistibilmente attratto dall'affabilità dei proprietari, Netta e Luca, di cui spesso mi chiedeva notizie. "Credi si possa prenotare da Netta per mezzogiorno e per le sette questa sera?", chiedeva appena preso possesso della stanza in albergo, ed era ovviamente impossibile opporsi a quegli orari terribilmente britannici. Ravello ce l'aveva nel cuore, non ci veniva solo per dirigere sul podio di Villa Rufolo, in occasione del Festival. Qui volle festeggiare un compleanno del compagno, Klaus, l'uomo che a lui ha dedicato la sua vita e che, venerdì scorso, l'ha visto morire.

A Ravello, ancora, trascorse una settimana alla fine di un mite, dolce settembre di qualche anno fa. Quella volta la malattia, la spina bifida, che lo tormentava dalla nascita, fu clemente con lui. Si sentiva bene, volle che lo accompagnassi "per ristoranti", a Tramonti e ad Amalfi: sapeva già dove andare, aveva studiato una guida gastronomica. Visitò una delle più rinomate fabbriche di ceramiche di Vietri e ne rimase affascinato, come affascinato rimase dalla figura di Ernestine Cannon, la celebre ceramista americana vissuta a Ravello, di cui gli raccontai.

L'ho visto per l'ultima volta la scorsa estate. Doveva dirigere a Villa Rufolo l'Orchestra Giovanile Italiana, in repertorio c'erano musiche di Beethoven e Strauss. Era dimagrito: "È per via della dieta che faccio da tempo, va bene così", tagliò corto. La sera della vigilia del concerto, dopo la cena con alcuni degli amici napoletani, avanzammo lentamente lungo via Roma, verso la piazza. Era affaticato. "Domani sarà bellissimo", gli dissi. Rispose, dopo un breve silenzio: "Io sono piuttosto in ansia". Colse il mio sguardo perplesso, e mi spiegò: "Non so se sono in grado di dare a quei ragazzi tutto ciò che un direttore deve trasmettere alla sua orchestra". Si interruppe, come per cercare le parole giuste, quindi continuò: "I giovani sono importanti, sono il futuro. Io li vedo, così attenti a fare del loro meglio, a dare il massimo: il direttore deve impegnarsi quanto se non più di loro... Insomma, sono un po' in ansia, ecco tutto". Tacque di nuovo, poi agitò la mano quasi a voler scacciare i cattivi pensieri e quel momento di fragilità, e disse: "Oh, alla vigilia succede sempre così, si pensa al peggio ma poi va tutto bene".
Andò benissimo. I giovani suonarono in modo eccellente, il loro direttore fu splendido. E Ravello fece da scenario alla recuperata allegria che, malgrado la stanchezza, sir Jeffrey Tate non nascose dopo il concerto: l'amata Ravello, che il Maestro salutò per l'ultima volta.

* giornalista

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