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Tu sei qui: SezioniStoria e StorieSantomenna, come dimenticare?
Scritto da Salvatore Ulisse Di Palma (redazione), domenica 23 novembre 2014 16:20:08
Ultimo aggiornamento domenica 22 novembre 2020 20:40:43
di Salvatore Ulisse Di Palma
Caro Direttore,
come posso dimenticare quei giorni a Santomenna nell'anno 1980, l' anno di quel terremoto che inginocchiò l'Irpinia, la Campania centrale e parte della Basilicata centro settentrionale.
Ricordo che mi ero da qualche mese diplomato al liceo scientifico di Amalfi, iscritto alla Facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Università di Napoli ed avevo superato il corso di primo pronto soccorso a Salerno diventando volontario dei Pionieri della Croce Rossa.
Partimmo da Ravello in molti, tristi perché sapevano che quella non sarebbe stata una gita di piacere anzi...
Quando arrivammo in quel paese dove la dott.ssa Teresa Mansi era segretario comunale trovammo un paese distrutto, sommerso dalle macerie.
E' vero, dice bene il professor Salvatore Sorrentino, sindaco dell'epoca di Ravello, in tanti contribuirono a donare cibo e vestiario per quella gente che aveva perso tutto .
Partimmo da Ravello di notte e, una volta arrivati a Santomenna ci prodigammo non poco a dispensare viveri e vestiti.
Ricordo di aver mangiato anch'io tanta carne Simmental, per fame, quella fame commista a tanto dolore da crearti un vuoto costante nello stomaco.
E, poi, con pala alla mano, mascherine al volto per il puzzo di cadavere che proveniva dalle macerie, scavammo, scavammo con tutta la nostra forza mentre i corpi dilaniati non avevano più sembianze umane.
Ricordo di aver trasportato a spalle tante bare, nelle quali ponevamo i resti di quella gente che mai avrebbe pensato di morire così tragicamente.
Un ragazzo mi si avvicinò e guardandomi, mentre io ero tutto impolverato con in mano una pala mi disse: "Tu non sei di Santomenna, io ho perso mio padre e mia madre, una casa, i miei ricordi più belli. Io ti ringrazio per quello che stai facendo per noi" e mi abbracciò stringendomi a sé fra le lacrime e la disperazione più profonda.
Quel ragazzo si chiamava Pasquale ed era forse un mio coetaneo e, negli anni, non l'ho mai dimenticato, come quei ricordi, quelle immagini che, come fotogrammi, ritornano spesso alla mia mente.
Tornai a Ravello fiero di aver fatto ciò che un uomo deve fare, saper portare la croce aiutando chi nella sofferenza vive e chiede aiuto.
Dottressa Mansi Teresa ti ringrazio per aver fatto in modo che un giovane, tanti giovani di Ravello potessero portare aiuto, speranza, sostegno, un sorriso a chi aveva perso tutto.
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