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Tu sei qui: SezioniStoria e StorieCronaca da quelle macerie nel cuore di Maiori [VIDEO]
Scritto da (redazionelda), giovedì 28 giugno 2018 08:35:59
Ultimo aggiornamento giovedì 28 giugno 2018 09:06:12
di Sigismondo Nastri
Il Vescovado ha ricordato una terribile vicenda di trent'anni fa: il crollo di un'ala del palazzo D'Amato, al corso Reginna di Maiori, che provocò sei vittime innocenti tra gli abitanti dello storico edificio, uno dei più belli della cittadina. Vi rimasero uccisi anche i due malfattori che, per mettere in atto una truffa a una compagnia di assicurazione, avevano appiccato il fuoco in un negozio di abbigliamento. Ho ancora ben presente nella mente l'episodio avvenuto prima dell'alba. Abitavo al parco Cocomero, in viale Capone. Ne fui immediatamente informato. Arrivai di corsa sul luogo della tragedia. E senza neppure pensarci su, sottraendomi a ogni controllo, riuscii ad arrampicarmi sulle macerie. Avevo una Polaroid, scattai delle foto. Due di esse particolarmente significative: il cadavere di uno degli attentatori, che emergeva dalla massa di pietre e calcinacci, e le taniche dalle quali era stata versata la benzina, causa dello scoppio. In costante contatto - non facile, perché all'epoca non c'erano i cellulari - con Umberto Belpedio, capo della redazione salernitana del Giornale di Napoli, che coordinava il mio lavoro.
Telefonai subito il servizio, mandai a mano le foto affidandole a un autista della Sita. Nella stessa mattinata - per decisione del direttore Antonio Sasso - il giornale uscì in edizione straordinaria e fu distribuito anche a Maiori.
Quando entrarono in azione i carabinieri il colonnello che dirigeva le operazioni, informato della mia... intrusione, minacciò di denunciarmi se avessi pubblicato le foto, dato che riprendevano corpi di reato non ancora repertati e sottoposti ad esame. Io m'ero spostato intanto sul terrazzo che s'affacciava sulle rovine (laboratorio di analisi del dottor Pizzolorusso) per seguire le operazioni della Scientifica. Riuscii a riprendere anche il momento in cui fu aperta la valigetta con gli strumenti di lavoro. Il colonnello mandò da me due carabinieri che volevano sequestrarmi le foto. Intanto le avevo già messe al sicuro.
Avvertii Umberto. Mi disse che le avrebbe comunque pubblicate.
E mi tranquillizzò: stavamo compiendo nient'altro che il nostro dovere di giornalisti. L'indomani uscirono (tranne quella del cadavere, troppo cruenta. E' conservata nel mio archivio). Continuai a seguire la vicenda nei giorni successivi insieme con Eduardo Scotti, inviato speciale del quotidiano. Facemmo, insieme, giornalismo vero: di informazione - precisa, corretta, completa -, ma anche d'inchiesta.
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