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Tu sei qui: SezioniDall'Italia e dal MondoOffendere su Facebook può farvi finire in carcere fino a 3 anni: ecco perchè
Scritto da (Redazione), martedì 9 giugno 2015 15:01:12
Ultimo aggiornamento mercoledì 20 novembre 2019 18:09:08
Offendere qualcuno su Facebook è un reato di diffamazione aggravata esattamente come l'offesa pubblicata dalle colonne di un giornale. A stabilirlo è la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione che, con la sentenza numero 24431 del 2015, ha sostanzialmente equiparato un post sulla bacheca di Facebook ad una diffamazione proveniente da un giornale qualsiasi. Occhio, quindi, a quando scrivete sul noto social network perché, come è giusto che sia, potreste essere chiamati a rispondere penalmente di quanto asserite.
La controversia è nata in seguito alla querela di un privato cittadino nei confronti di un "amico" virtuale che era intervenuto sul suo profilo Facebook in maniera poco cortese, pubblicando un post sulla bacheca. La vicenda si è sviluppata dinanzi al giudice di pace di Roma che, due anni fa, si era dichiarato incompetente dopo aver ipotizzato la fattispecie della diffamazione aggravata, disciplinata dal terzo comma dall'articolo 595 del Codice penale. Chiamato in causa, quindi, il Tribunale che, però, aveva a sua volta escluso la sua competenza a giudicare, in particolare a causa dell'aggravante "giornalistica" che, secondo i giudici, non c'era in virtù del fatto che la persona offesa ha gestito male i meccanismi di tutela della propria privacy in base ai quali, come è noto, si può impedire ad altri di pubblicare sulla propria bacheca.
A questo punto, inevitabile, è stato necessario l'intervento della Corte di Cassazione che ha restituito gli atti al tribunale monocratico, ponendo quindi sul medesimo piano giuridico la vicenda della diffamazione giornalistica con l'offesa su Facebook. La Suprema Corte ha ritenuto lecito ragionare in questo modo sottolineando che il fondamento dell'aggravante giornalistica è da ricercarsi «nella potenzialità, nella idoneità e nella capacità del mezzo utilizzato per la consumazione del reato a coinvolgere e raggiungere una pluralità di persone (...) con ciò cagionando un maggiore e più diffuso danno alla persona offesa». La Corte ha sostenuto che lo «strumento principe della fattispecie in esame» (diffamazione, ndr) è la stampa quotidiana e periodica ma la stessa norma, di contro, prevede una fattispecie analoga quando si è di fronte a «qualsiasi altro mezzo di pubblicità». Pertanto è applicabile l'aggravante che porta la pena fino a 3 anni di carcere.
Provando a tradurre dal burocratese, prendendo atto ancora una volta dell'inadeguatezza della legislazione italiana all'evoluzione dei tempi, il ragionamento che viene fuori è molto lineare: i giudici hanno decretato quanto nella prassi esiste già. Un social network, infatti, consente di raggiungere migliaia di persone grazie ad amicizie "a catena": ogni contatto può averne fino a 5 mila ma se il titolare non imposta le limitazioni per tutelare la propria privacy, di fatto chiunque può leggere. Un post pubblicato su una bacheca "pubblica" (cioè un profilo privato che ha la condivisione "pubblica" delle informazioni) può potenzialmente raggiungere un pubblico vasto quanto un giornale. E noi, nel nostro piccolo, raccontiamo spesso di episodi nati in rete e divenuti fenomeni mediatici: vicende che i giornali riprendono ma non determinano come quando, in passato, godevano del monopolio dell'informazione insieme alla tv ed alla radio.
Al di là dell'aspetto giuridico, quindi, la vicenda ci dice una cosa: oggi tutti, nel piccolo (ma nemmeno tanto!), possiamo fare informazione e raggiungere un numero di persone talmente vasto che nemmeno possiamo immaginare se non abbiamo adeguata cognizione delle potenzialità del mezzo.
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